domenica 21 novembre 2010

FARO' LA MAESTRA




Il paese dove mi fece cadere la cicogna sopra al tetto di una vecchia casa, dentro un nido già stretto, è situato in mezzo alle montagne. E' un posto molto bello dove ancor oggi si può respirare un'atmosfera di tranquillità. Al tempo in cui io venni al mondo, nei primi anni 50, esso era abitato solo da gente semplice, contadina e si viveva partecipando ai ritmi delle stagioni, con tempi giornalieri ben scanditi dal suono delle campane: l' Ave Maria all'alba, insieme al canto dei galli, l'Angelus e l'odore della polenta ormai pronta per il desinare che si spargeva nell'aria a mezzo giorno, e il vespro che invitava i contadini a lasciare i campi al tramonto.

Un giorno bussò alla porta di casa Ernesto il postino, aveva un pacco; ricevere posta allora era cosa rara, tutti in paese lo sapevano ed era quasi una festa, se poi si trattavo di un pacco, figuriamoci!

- "C'è un pacco per voi, dall'America "- gridò il postino.

Di tanto in tanto a distanza di mesi, arrivava dall'America un pacco d’indumenti; a inviarlo era una zia, Alice, che io non avevo mai conosciuto e della cui esistenza sapevo attraverso il racconto dei nonni, qualche vecchia fotografia ingiallita e quei pacchi….

La mamma col suo gran pancione, dove teneva l'ennesimo fratellino, le sue caviglie gonfie e uno stuolo di bambini attorno andò alla porta e disse:

- "Avanti entrate pure, appoggiate qui, sul tavolo" - poi aggiunse solennemente - "E' la Divina Provvidenza!"

Con il candore dei miei sei anni pensai che la Divina Provvidenza dovesse essere qualche cosa di molto bello, importante e buono poiché quando entrava in azione lei, tutti diventavano più allegri.

Io e i miei fratellini ci avvicinammo al pacco incuriositi e ansiosi di vedere… la Divina Provvidenza…

-"Non toccate" - disse la mamma - "Il pacco lo apro io"

Intanto osservavo la carta marrone, lo spago incrociato che teneva chiuso il pacco, la targhetta di colore blu con scritte parole misteriose che io, bambina di prima elementare a malapena riuscivo a leggere sillabando: PAR AVION… Riconobbi, scritto con una calligrafia tremolante inclinata verso destra, il nome e cognome del mio papà e il nostro indirizzo.

Mi colpì molto la lettera "enne" che stava al posto di numero e rimasi lì incantata a guardarla: com’era bella quella "enne", meravigliosa… Era proprio come la poteva tracciare solo la Divina Provvidenza. Era una "enne" maiuscola alta, snella, con due ricciolini, uno in basso a sinistra e uno in alto a destra; la linea, più spessa nel tratto dove c'erano le incurvature, si andava man mano assottigliando: era un capolavoro! Di certo molto più elegante che quella "enne" maiuscola che avevo imparato a scrivere a scuola di cui avevo riempito ben due pagine del quaderno di bella scrittura! Inoltre e la cosa non guastava per niente, anzi la rendeva più interessante ancora, era inclinata verso destra.

Finalmente giunse il momento dell'apertura del pacco: la mamma tagliò lo spago e piano incominciò a svolgere la carta marrone. Comparve una scatola di cartone scuro e dentro c'era quello che io da subito considerai il tesoro! Fra gli indumenti di vario tipo e misura scorsi un cofanetto di latta smaltato in rosso con coperchio decorazioni floreali dorate. Quando la mamma aprì quel cofanetto e ne vidi il contenuto, provai un senso di gioia particolare… C'erano tanti, tanti bottoni grandi e piccoli, quadrati e rotondi, con due o quattro buchi, di legno, di metallo, di madre perla, dorati e argentati, a pallina, a fiore, di colori diversi… e la mia fantasia incominciò a mettersi in moto.

Io ero una bambina sognatrice e fantasticavo moltissimo. Trascorrevo lunghe ore seduta sul gradino di legno davanti all'uscio di casa ad ammirare il cielo guardandone i colori, osservavo le nuvole che si rincorrevano, si prendevano e si lasciavano per poi danzare ancora insieme creando a immagini che cambiavano lentamente ma di continuo: a volte c'era un cane, una pecora, un gatto, un volto, un cumulo di fieno, un angelo, un cuscino e perfino…la Divina Provvidenza! Talvolta sognavo di essere sdraiata sopra a una di quelle nubi e di vagare nell'aria lasciandomi cullare leggera. Se le nubi erano scure e il cielo minacciava un temporale, vedevo gli orchi grigi e cattivi che correvano verso me, mi mettevo paura e rincasavo di corsa.

Ma il momento più bello fu quando dopo qualche giorno, la mamma mi disse: - "Ti piace il cofanetto dei bottoni, vero? - Allora tienilo, è tuo".

Presi il cofanetto con grande emozione trattenendo il respiro, lo aprii, misi le mani dentro, mescolai i bottoni per un po' con delicatezza ascoltando le sensazioni che mi davano sulla pelle, fra le dita, il rumore lieve che essi producevano.

Fui felice. Quante cose avrei potuto fare con tutti quei bottoni!

Nei giorni seguenti, quand' ebbi esaurito la serie dei braccialetti e delle collane di vario tipo, iniziai a raggruppare i bottoni per forma, per colore, per dimensione, a formare delle file, a disporli sul tavolo a mo' di cerchio e poi, sull'onda dell'entusiasmo a dar loro un nome e uno per uno. Giocavo immaginando come poteva essere la sua voce se fosse stato un bambino con il grembiulino nero e il fiocco azzurro anzichè un bottone e lo facevo in base al colore o al materiale di cui era fatto. Infine cominciai a schierarli come si trattasse di una classe di bambini veri e io fossi la loro maestra. A quel punto fu per me naturale parlare con loro, raccontare loro fiabe, recitare filastrocche, cantare "Pierino esploratore", "La bandiera dei tre colori"… Durante l'ora di bella calligrafia introdussi nel mio programma con molto piacere la famosa "enne" maiuscola della zia Alice d'America! Con l'asticciola e il pennino intinto nell'inchiostro diedi ai miei alunni dimostrazione di come si faceva a tracciarla sul foglio; naturalmente loro ne rimasero entusiasti!

Poi inevitabilmente arrivava il momento di riporre i bottoni nel cofanetto, richiuderlo e occuparsi dei compiti, quelli veri…

Un pomeriggio la mamma non si sentì bene, arrivò la levatrice.

C'era la nonna a prendersi cura di noi. Io mi trovavo seduta al tavolo con il quaderno di lingua aperto davanti a me e dovendo per compito scrivere alcuni nomi propri di persona che iniziavano con la lettera "enne" non seppi resistere alla tentazione di farla come la faceva la zia Alice: quale migliore occasione per far finalmente vedere a tutto il mondo come si scrive una vera "enne" maiuscola? Provai e riprovai, finalmente mi sembrò perfetta e allora scrissi nel mio quaderno: Nino, Nilla, Nicola…

Che bellezza! Mostrai il mio compito alla nonna: -" Brava" - mi disse - "Hai scritto molto bene." Io fui fiera di me stessa. Ripresi il mio cofanetto e feci l'appello sentendomi appagata e felice. Fu quello il momento in cui decisi che da grande avrei fatto la maestra!

La sera nacque un nuovo fratellino ed eravamo tutti contenti.

Intanto mi esercitavo per la futura professione: parlavo ai miei bottoni come fossero alunni veri, insegnavo loro "l'educazione" ossia le buone maniere, correggevo il loro linguaggio esortandoli a non parlare dialetto in classe; si facevano i conti e perfino la pausa, durante la quale li disponevo in cerchio per fare il girotondo o li muovevo per giocare a prendersi o a nascondino…

Spesso dicevo ai miei scolari di essere coraggiosi, di salire la scala di legno facendo attenzione, di entrare nelle stanze anche se buie, di portar da mangiare agli animali, anche se nella stalla ci sono i conigli che saltano da tutte le parti e fanno un po' paura: - "I conigli sono buoni" - dicevo - "Anche le galline, mentre i cani se non li conosci non sai mai come la pensano, bisogna fare attenzione e così i gatti."

Questo insegnavo ai miei scolari e ripetevo a me stessa: da grande farò la maestra!

Tanto per non lasciar nulla in sospeso, devo aggiungere che ritengo di aver subito una grande ingiustizia quando la mia maestra vide il compito in cui scrissi la "enne" maiuscola come faceva la zia Alice d'America: quella "enne" a lei non piacque per niente e per punizione mi obbligò a riempire un'altra pagina del quaderno di bella scrittura di "enne" maiuscola regolamentare.

Il tempo passava e io diventavo grande; le giornate scorrevano serenamente fra scuola, catechismo, messe, vespri, funzioni religiose e l'azione cattolica, con miei coetanei e con i miei fratelli.

Frequentavo la quinta elementare; il mio maestro era severo, si chiamava Valentino, ci raccontava di essere stato in guerra; un valoroso alpino che aveva combattuto nel Carso. La sua fama in paese era di essere colui che introduce alla vita adulta e fa passare ai bambini la voglia di "giocare e basta…”.

Una mattina il maestro stava presentando la poesia "Egoismo e carità", io partecipavo molto emotivamente, mi sentivo vicina alla… "poverella vite” che quando fiedon le nevi i teneri arboscelli, tenera l'altrui duol commiserando scioglie i capelli… e l'immagine del vecchio che “…tien colmo in mano un nappo e il tuo licor gli cade nell’ondeggiar del cubito sul mento, poscia floridi paschi ed auree biade sogna contento…” L'immagine mi era familiare e io ero assolutamente solidale con la vite così generosa, mentre come il poeta, anch'io odiavo l'alloro che ”…quando s'invola il verno, ravviluppato nell'intatta vesta verdeggia eterno pompa dei colli, ma la sua verzura gioia non reca all'augellin digiuno, chè la splendida bacca invan matura non coglie alcuno…”.

Stavo ascoltando e riflettevo sul significato di questi versi quando improvvisamente entrò in classe la bidella, parlò un po' con il maestro e poi entrambi mi guardarono. Capii che doveva essere successo qualche cosa di grave… Mi dissero di tornare a casa per stare con i miei fratellini più piccoli perché la mamma stava male e il dottore la mandava all'ospedale!

La mamma si era purtroppo ammalata di tubercolosi ai polmoni e fu ricoverata al sanatorio dove rimase per i tre anni seguenti. Io e i miei fratelli fummo accompagnati al "Dispensario", lì ci fecero la "lastra": tutti a posto, tranne la mia sorellina più piccola che era stata contagiata e fu a sua volta ricoverata in un centro pediatrico vicino al lago di Garda.

Io e gli altri fratelli fummo distribuiti fra i vari parenti, accolti da loro più per forza che per amore, dicevano: "- Non possiamo rischiare di ammalarci anche noi!"- Guardavo mio padre, mi sembrava stanco e indifeso, avrei voluto fare qualcosa per lui… Provai una forte stretta al cuore e con un nodo in gola cercai di rincuorare i miei fratelli dicendo loro: - " Sarà per poco tempo vedrete, la mamma tornerà a casa e tutto sarà come prima".

A me toccò essere ospite dai nonni in un maso situato a circa cinque chilometri dal paese. Tutte le mattine salivo sulla corriera per recarmi alla scuola media, nella borgata vicina.

Ero una brava scolara, gli insegnanti erano contenti di me e si consolidava sempre più in me l'idea di seguire gli studi magistrali.

Dopo scuola nel tardo pomeriggio vedevo papà che aiutava il nonno a mungere le mucche; a volte ci dava notizie della mamma. Poi saliva sulla sua motocicletta "Benelli" e se ne tornava a casa nostra in paese.

A giugno terminai gli esami di licenza media, fui brillantemente promossa. Di lì a poco tornò a casa anche la mamma e finalmente la famiglia si ricompose.

Avrei voluto iscrivermi alla scuola magistrale in città, però i miei genitori dissero che non era possibile, che per le ragazze era inutile studiare, del resto io avevo già studiato abbastanza alle medie, tanto poi mi sarei sposata.

Trovai lavoro in un negozio nel paese vicino: vendevo vernici e materiale elettrico. Una sera tornando a casa avevo uno strano presentimento e la mia ansia aumentò di più quando mi resi conto che nel sottoscala dove era solito lasciarla, non c'era la moto di papà. Salii le scale di corsa, due gradini per volta e il cuore in gola. La mamma non c'era. Mio fratello m’informò che papà aveva avuto un incidente al lavoro e l'avevano portato all'ospedale e che la mamma era andata a vederlo.

Diedero la notizia anche attraverso la radio, al Gazzettino Regionale… Seppi così che papà non sarebbe più tornato. I miei sogni si frantumarono in un attimo ed iniziarono gli anni più difficili della mia vita.

Dopo il funerale per mesi la sera ci sembrava di udire il rumore della motocicletta del papà che tornava, di sentire il suo passo cadenzato salire la scala, ci pareva di vedere la maniglia abbassarsi e ci aspettavamo che comparisse sull'uscio.

Il dolore per la morte di papà così repentina fu immenso e lacerante, poi piano, piano esso lasciò il posto alla rassegnazione: bisognava riprendere il filo della vita ed affrontare le giornate anche se si presentavano sempre più difficili.

Venni a lavorare in città come cameriera in un bar, mi pagavano un po' più che al negozio e mi davano vitto e alloggio.

Dopo qualche mese conobbi un uomo, me ne innamorai e in breve tempo fui sposa e madre.

Passarono i mesi ed anche alcuni anni, poi a un tratto, iniziò a farsi sentire in maniera sempre più insistente una voce che diceva: -"Ricordi"? - Avresti voluto fare la maestra - Non è troppo tardi - Provaci - Esistono le scuole serali e ci sono tanti libri…

Entrai così in conflitto con me stessa, fu una lotta impietosa fra quelli che erano i miei doveri di madre e i miei diritti di affermazione personale, le mie aspirazioni. Dopo averci pensato a lungo presi la mia decisione e mi iscrissi ad una scuola serale. Frequentavo poco perché i miei due bambini mi impegnavano moltissimo, e studiavo molto. In pochi anni riuscii ad ottenere il mio agognato diploma di "maestra" con una votazione di tutto rispetto.

Per me significò riaprire lentamente le mie ali intorpidite e ricominciare a volare: arrivarono le prime supplenze, i concorsi, poi il ruolo. Ricordo l'emozione del mio primo giorno di scuola da maestra; mi pareva di vivere dentro un bellissimo sogno! Davanti a me non c'erano più i bottoni del cofanetto rosso ma bambini veri: sedici bambini che mi guardavano con gli stessi occhi dei miei figli, bambini ai quali potevo parlare e raccontare, li potevo ascoltare e sentivo la loro fiducia incondizionata, i loro timori…

Ero orgogliosa e consapevole di aver trovato in me la forza per affrontare le difficoltà della vita, di aver conservato intatto il mio sogno interrotto, di averlo ripreso e realizzato.

Sono trascorsi molti anni, sono diventata nonna ; nel mio percorso professionale ho incontrato molti bambini, tutti diversi ma tutti uguali, con lo stesso grande bisogno di affetto, di essere ascoltati e guidati. Ancora oggi ogni mattina entrare in classe mi emoziona come la prima volta e il miracolo si ripete: guardare i bambini negli occhi mi riempie di gioia!

Il mio racconto di vita è questo, il resto è presente rivolto al futuro: sono serena, posso guardare attorno a me con curiosità, incontrare nuove persone, fare nuove esperienze sentendomi libera di farle, pronta a ricominciare… a scrivere…































































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